Ficca il naso

martedì 18 settembre 2018

Astuti e mortali: la setta degli Assassini



Pochi anni prima della Prima Crociata, nel 1090, il carismatico ed erudito Hassan-i Sabbah conquista il forte di Alamut, in Iran. Ci sono molte storie diverse su come il "vecchio della montagna" (da un'errore di traduzione del termine arabo shaykh, che significa sia capo che vecchio) abbia conquistato la fortezza usando il suo ingegno e senza spargere una goccia di sangue, ma ciò che importa è che per i successivi duecento anni il castello sarà la base operativa della sua setta. Sabbah decide di fondare il suo ordine quando l'erede dell'Impero fatimide, che egli sosteneva, venne ucciso. A questo punto si scatenò una guerra fratricida fra tra i due figli Nizār e al-Mustaʿlī per la successione, e i seguaci di Sabbah si allontanarono dagli altri seguaci della corrente Ismailita, derivante dall'Islam sciita, in quanto sostenevano Nizār, da cui prenderanno il nome di Nizariti.

Caratterizzati dall'assoluta obbedienza ai loro capi carismatici che hanno un rango semi-divino, i seguaci della setta vengono indottrinati e addestrati rigorosamente per compiere le audaci missioni che li renderanno famigerati in tutto il mondo. I ranghi più bassi della rigida scala gerarchica della setta era occupata da coloro che però erano addestrati con più cura, i cosiddetti Fida'in. Costoro erano giovani forti, agili e robusti, ma anche intelligenti, astuti e carismatici. Infatti la tattica degli Assassini prevedeva un accurato lavoro di pianificazione che poteva durare anche anni, durante i quali l'agente si infiltrava usando le sue abilità fino ad arrivare il più vicino possibile al bersaglio. Questo iter terminava con l'eliminazione della vittima, preferibilmente uccisa in un luogo pubblico per rendere il più spettacolare e intimidatorio possibile l'omicidio. Il fatto che in questo modo gli agenti accettassero serenamente di essere trucidati dalle vendicative guardie ha dato adito alla leggenda secondo la quale i seguaci del Vecchio della Montagna abusassero di hashish, somministrato loro dal maestro per indottrinarli. Da qui deriverebbe anche il loro nome Hashashini, dall'arabo al-Hashīshiyyūn, "coloro che si dedicano all'Hashish".

Ma questa teoria è poco credibile in quanto l'uso della droga allenta i sensi, rende difficile la concentrazione e compromette dunque la capacità di compiere le audaci ed elaborate imprese di questi agenti. Più probabilmente il loro nome deriva dal loro maestro e significherebbe dunque "seguaci di Hassan". Anche la leggenda secondo la quale gli adepti erano portati in un lussureggiante giardino che veniva presentato loro come il paradiso, al quale potevano avere accesso solo grazie al loro maestro (una storia riportata anche da Marco Polo), è stata confutata e non è più ritenuta credibile.
Ma nonostante la loro abilità e il loro valore, nel 1256 il condottiero mongolo Hulagu Khan catturò la rocca di Alamut e le altre fortezze con cui gli assassini controllavano la regione, sterminandone gli occupanti per vendicare il tentato assassinio di Möngke Khan. I superstiti della disfatta setta si recarono in Egitto dove offrirono i loro servigi ai Mamelucchi e anche in Ungheria, dove sopravvissero fino a quando la loro comunità non venne estirpata dall'Inquisizione.


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lunedì 17 settembre 2018

I misteriosi figli del totem: i Piceni



Da sempre contraddistinti per la loro spiritualità occulta, fin dalla loro nascita leggendaria i piceni sono presentati come un popolo intrinsecamente legato alle potenze divine: i piceni non erano altro che sabini, genti che popolavano Lazio e Campania, riunitisi per quel mitico, a metà tra sacro e profano, ver sacrum. Questo viaggio, a cui partecipavano grandi masse di persone (quasi sempre giovani), si snodava per l'intera penisola centrale, alle ricerca del luogo idoneo per fondare un nuovo dominio.
Quando sul vessillo del capo guerriero si pose un picchio, all'altezza dell'attuale città di Ascoli, i futuri piceni compresero che gli dei avevano deciso che quello sarebbe stato il luogo in cui loro avrebbero dovuto stabilirsi.

Da un punto di vista storiografico si ritiene che i Piceni facciano parte del grande calderone degli Osco-Umbri, giunti in Italia nel II millennio avanti cristo. Le popolazioni osco umbre popolarono l'Italia dalla Calabria (dove vivevano i temuti Bruzi) fino appunto alla Picenia. Si ipotizza che i Piceni partirono da Tiora Matiena, luogo in cui vi era un oracolo dove un picchio profetava ai mortali, per poi risalire la Valle del Tronto, ponendo Ascoli quale loro capitale e Cupra come santuario. Un'altra teoria invece si lega agli Illiri, i quali potrebbero essersi mescolati o avere influenzato le popolazioni Osco Umbre della costa, sebbene non conosciamo iconografiche legate al Picchio in uso nella zona balcanica. Sembra infine farsi strada anche la teoria di un popolo autoctono, entrato in contatto successivamente con gli osco umbri.

Ma se queste sono domande a cui è difficile dare una risposta, ciò che vediamo di certo è che i Piceni avevano una propria lingua, erano estremamente avanzati (come dimostrano i tantissimi reperti archeologici), ma soprattutto avevano un legame con il sacro unico tra le popolazioni italiche. Per i Piceni sembra non esistesse una separazione tra ciò che era divino e ciò che fosse profano. Solo negli ultimi anni della loro storia iniziano a esservi influenze estranee che li portano ad avvicinarsi alla sacralità pragmatica romano etrusca.

Una figura femminile, affiancata a quella del picchio, è il fulcro della religiosità picentina. La dea Cupra, di cui il santuario è l'unico a essere stato ritrovato oltre ad alcuni depositi votivi e al tempio successivo di Diomede, sembra essere il centro di un culto di origini antichissime, forse legato alla dea pre indoeuropea matriarcale conosciuta quale Potnia. Altro essere divino era il signore degli animali, un'entità selvaggia ritratta in numerose offerte di bronzo e nei corredi tombali dei guerrieri. Il livello artistico dei piceni è stupefacente: opere d'arte quali il guerriero di Capestrano e i guerrieri del totem del lupo denotano non solo uno sviluppo tecnologico non indifferente, ma anche la ricchezza del popolo, che oltre alla pastorizia si dedicava al commercio sull'adriatico. Gli etruschi e gli umbri erano anch'essi importanti partner commericali.
Totem animali, quale lupo e picchio, sono altre caratteristiche peculiari dei Piceni, di cui resti artistici ci descrivono danze sacre, antichi rituali profetici, processioni misteriose verso località perdute tra i monti.
Si ipotizza che le sacerdotesse e i sacerdoti avessero un ruolo quasi predominante nella società picena: la lettura del futuro e l'interessere di sortilegi avevano la medesima importanza delle decisioni di un capo militare.
Probabile quindi che le donne picene (in particolare le sacerdotesse) fossero figure rispettate, depositarie di un'antica sapienza che gli uomini non potevano comprendere.

I Piceni popolarono il territorio che andava dal fiume Foglia all'Aterno dal IX al III secolo a.c. Pressati dai Galli a nord, i Piceni si allearono ai romani.
Nel 290 a.c., dopo la vittoria di Sentino sui Sanniti, la potenza romana lambì i confini del territorio dei Piceni, i quali aiutarono i guerrieri dell'Urbe a sconfiggere i Galli Senoni. Appare così un indizio della potenza militare Picena: non erano stati travolti dai celti, avevano resistito alle incursioni etrusche, addirittura permettevano ai romani di vincere i temibili guerrieri nordici. Eppure ormai il loro destino era segnato: i domini romani li circondavano completamente e, sentendosi minacciati, i piceni reagirono.
Fu un guerra lunga (ne parleremo approfonditamente in un articolo) che si concluse infine con la vittoria romana, così importante da portare al conio di una moneta d'argento celebrativa. Iniziò da quel momento una storia sanguinosa di rivolte, alleanze e tradimenti. Molti piceni vennero deportati nelle zone di Salerno, gli altri vennero lentamente romanizzati.
Guerrieri piceni combatterono a fianco dei romani sul lago Trasimeno, subirono il saccheggio da parte di Annibale ma rimasero fedeli a Roma, videro i propri figli più giovani morire a Canne. Con la guerra sociale del II secolo a.c., i piceni sconfissero, insieme ai loro alleati, i romani presso Falerone (90 a.c.), ma vennero poi sconfitti (per un soffio) mentre cingevano d'assedio la città di Fermo. Il condottiero dei Piceni, Vidacilio, tentò di proteggere alllora la capitale Ascoli dalle forze romane, ma, nonostante avesse messo in fuga i legionari, trovò il popolo ormai incerto e lontano dalle tradizioni che un tempo animavano il popolo picentino. Amareggiato, compì l'estremo di atto di suicidarsi.

Ascoli Piceno infine cadde e la sua caduta segnò la scomparsa del culto della dea Cupra, già in decadenza.
I Piceni divennero parte della tribù Fabia e il loro territorio fu ripartito tra la regio V e la regio VI, riunificato infine con Diocleziano nel Flaminia et Picenum. Giove vinceva così la meno guerresca dea Cupra, di cui tra i nuovi cittadini romani se ne perse il ricordo. Eppure, per coloro che ancora adesso ascendono fino agli impervi santuari del popolo del Picchio, le antiche pietre sembrano ancora riecheggiare dei rituali millenari e, forse, voci femminili sussurrano tuttora i segreti di una terra magica.

Fonti
I Piceni, storia e archeologia delle Marche in epoca preromana, di A. Naso.
La civilità della Dea, Marika Gimbutas.
Storia della Prima Italia, Massimo Pallottino.
Preistoria e Storia delle Regioni D'Italia, Gianna G. Buti

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sabato 15 settembre 2018

Samurai! Saburo Sakai, leggendario asso nipponico (1916-2000)



La famiglia nella quale Saburo nacque nel 1916 era appartenuta un tempo alla casta militare dei samurai, ma era stata poi costretta a darsi all'agricoltura in seguito all'haihan-chiken. Rimasto orfano a 11 anni e ottenuti scarsi successi negli studi, a 16 anni si arruolò nella Marina imperiale giapponese, un ambiente dove vigeva una disciplina durissima e in cui le reclute venivano violentemente percosse per ogni minima effrazione o errore. Grazie alla sua educazione che era stata incentrata sul rispetto delle norme del Bushido e dell'Hagakure, Saburo riuscì non solo a superare il massacrante addestramento, ma si guadagnò il grado di sergente di marina prima di fare richiesta per entrare in una scuola per piloti. Come premio per la sua abilità che lo aveva reso il miglior allievo del corso, ricevette un orologio d'argento dall'Imperatore in persona, prima di venire trasferito in suolo cinese, dove c'è un disperato bisogno di piloti. Qui, pilotando un Mitsubishi A5M abbatte la sua prima preda, un Polikarpov I-16. Quando il suo aeroporto venne bombardato da 12 veicoli cinesi, il già ferito Sakai balzò sul primo aereo ancora utile, inseguì gli assalitori e ne abbatté uno prima di tornare indietro per la mancanza di carburante e tentare un atterraggio di emergenza a causa delle ferite.

Trasferito nella base di Hankow, venne selezionato per pilotare il leggendario Mitsubishi A6M "Zero", con il quale prende parte, il 7 dicembre 1941, all'attacco su Clark, base statunitense nelle Filippine che viene rasa al suolo. Nel corso di quella che all'epoca fu un'incursione da record per la distanza percorsa, Saburo abbatté un bombardiere B-17, primo abbattimento da parte di forze giapponesi di questo tipo di aeroplano. Trasferito in Borneo, mise in evidenza due delle sue caratteristiche più tipiche: la grandissima abilità e l'atteggiamento ribelle. Nei cieli sopra Surabaya infatti 23 Zero affrontarono una cinquantina di caccia olandesi, abbattendo una quarantina di nemici in cambio di tre sole perdite (anche se i numeri sono incerti).
La sua attitudine critica verso gli arroganti ufficiali superiori e la tipica mentalità giapponese lo portarono a disobbedire all'ordine di abbattere qualsiasi veicolo nemico, quando risparmiò un Douglas DC-3 carico di civili, e a compiere gesti provocatori come lo spettacolo acrobatico che Sakai e gli assi Hiroyoshi Nishizawa e Oshio Ota (con i quali formava il famoso "Cleanup Trio") offrirono ai piloti alleati di Port Moresby.

Trasferito nella base di Lae, in Nuova Guinea, si guadagnò il rispetto degli equipaggi di terra e d'aria (perse pochissimi gregari durante la guerra) con la sua abilità ma anche con il suo carattere così diverso da quello degli arroganti e violenti ufficiali cui erano abituate le truppe. Ma durante i ferocissimi scontri sopra Guadalcanal, l'8 agosto, Sakai venne colpito in testa da un colpo di mitragliatrice. Il proiettile passò attraverso il cranio del pilota, accecandolo da un occhio e paralizzando il lato sinistro del suo corpo. In queste condizioni terrificanti riuscì a percorrere in 4 ore e mezza i 1.000 km che lo separavano dalla base di Rabaul, dove rifiutò qualsiasi cura medica prima di aver fatto rapporto. Un'operazione senza anestesia gli permise di usare di nuovo la parte sinistra del corpo ma nulla poté essere fatto per salvare il suo occhio destro. Dopo 6 mesi di riabilitazione, il pilota ormai orbo trascorse un anno ad addestrare nuovi piloti, vedendosi rifiutato il permesso di tornare a combattere fino all'aprile del 1944.

Tornato nella mischia, Sakai ingaggiò gli statunitensi in una serie di scontri sopra Iwo Jima, dimostrando la sua esperienza e abilità quando riuscì a sfuggire a quattro moderni Hellcats senza venire mai colpito una sola volta. La sua indole ribelle emerse ancora una volta, quando si rifiutò di portare a morte certa i suoi uomini, a cui era stato ordinato di portare a compimento un attacco kamikaze, portandoli invece in salvo a Iwo Jima. Nonostante la sua grave menomazione, riuscì ad abbattere altri 4 veicoli nemici, portando le sue vittorie alla cifra di 64, che gli valsero la promozione ad ufficiale, un onore concesso molto raramente nell'esercito imperiale. L'alfiere Saburo Sakai venne scelto insieme ad altri per pilotare una forza equipaggiata con i moderni e ottimi Kawanishi N1K Shinden, ma ormai era troppo tardi. Dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, lui e altri nove compagni contravvennero agli ordini per combattere un ultimo scontro, per poi dover accettare anch'essi la sconfitta del Giappone.

Promosso a sotto-tenente, dopo la guerra divenne un buddista devoto, vegetariano e pacifista, tanto che giurò di non uccidere mai più un essere vivente, nemmeno una mosca.
La sua vita post-bellica inizialmente venne segnata dalla povertà e dal dolore per la morte prematura della moglie, ma nel 1952 aprì una piccola tipografia e inviò la figlia a studiare in America. Criticò aspramente il governo giapponese e le scelte ottuse e arroganti che avevano provocato la morte di centinaia di migliaia di persone, oltre a denunciare come i suoi superiori lo discriminassero e maltrattassero, nonostante le sue imprese eroiche. In seguitò visitò gli Stati Uniti dove incontrò molti dei suoi antichi avversari, con i quali intrattenne rapporti improntati al rispetto e alla stima reciproca. Il pilota che si era distinto non solo per abilità, resilienza e amore per la propria patria, ma anche per galanteria e rispetto per la vita umana morì il 22 settembre 2000 durante un incontro fra veterani nella base navale di Atsugi, a causa di un attacco cardiaco.


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Sangue nei Balcani: la battaglia di Durazzo, 18 ottobre 1081



Dopo aver conquistato la Sicilia araba e il sud Italia bizantino, Roberto il Guiscardo non prese bene la deposizione dell'imperatore Michele VII Dukas. Infatti Costantino, il figlio del monarca, aveva preso in sposa la figlia del duca di Apulia e Calabria, Elena, che ora vedeva svanire la sua possibilità di sedere sul trono di Costantinopoli come imperatrice. Col pretesto di supportare le pretese di Costantino contro l'usurpatore Alessio I Comneno, Roberto trasportò con 150 navi i suoi 15.000 uomini in Illiria, con l'obbiettivo di catturarne la capitale Durazzo. Ma la città era ben difesa e non temeva l'assedio, tanto più che il doge Domenico Selvo accettò la richiesta di aiuto in cambio di concessioni commerciali offerte da Alessio. Gli esperti marinai veneziani sorpresero la flotta di Roberto e le inflissero una sonora sconfitta a colpi di fuoco greco e abbordaggi. Nonostante ciò il Guiscardo non si scoraggiò e cominciò l'assedio della città, difesa dall'esperto Giorgio Paleologo. Per tutta l'estate i normanni bombardarono la città con baliste e catapulte, mentre i difensori compivano improvvise sortite per distruggere le macchine e le scorte degli assalitori. Oltre alla distruzione delle loro macchine (prima fra tutte la preziosa torre d'assedio), i normanni dovettero subire un'epidemia che decimò i loro ranghi.

Ma l'imperatore Alessio non era lontano: ben presto il suo variegato esercito composto da tagmata traci e macedoni, unità d'élite excubita e vestiaritae, manichei, cavalleria tessala, coscritti dei Balcani, fanteria armena, ausiliari turchi, mercenari franchi e la temibile guardia Variaga. Quest'ultimo corpo d'élite all'epoca era formata principalmente da anglo-sassoni, scacciati dalle isole britanniche dopo la conquista normanna. A questi nerboruti giganti ascia-muniti si presentava finalmente l'occasione di regolare i conti con gli intraprendenti uomini del nord. Alessio, contro al parere dei suoi generali, volle immediatamente attaccare Roberto, che informato dei suoi movimenti, abbandonò l'assedio e si preparò allo scontro campale. Entrambi i comandanti divisero il proprio esercito in tre divisioni, avanzando cautamente contro il nemico. I variaghi costituivano l'avanguardia bizantina, un muro di asce e scudi dietro cui si riparavano gli arcieri che scoccavano e tornavano a ripararsi dietro i mercenari nordici. Roberto lanciò dei cavalieri per provocare i variaghi e distoglierli dalle loro posizioni, ma i normanni furono fermati dalla pioggia di frecce che li ricacciò indietro. D'improvviso la destra normanna guidata da Amico di Giovinazzo si lanciò contro il centro e il lato sinistro bizantino, che però resse all'urto, e addirittura mise in rotta gli attaccanti. Dimentichi del pericolo cui si sarebbero esposti, i variaghi allora partirono all'inseguimento degli sconfitti che fuggivano verso il mare.

A questo punto comparve Sichelgaita, sposa longobarda del Guiscardo, che indossate armi e armature rianimò gli inseguiti con la sua determinazione e il suo coraggio che la rendevano "una seconda Atena". I variaghi che avevano messo in fuga i cavalieri normanni con le loro grandi asce a due mani erano ora esausti e separati dal resto dell'esercito, facile prede per i balestrieri e i lancieri di Roberto. I sassoni superstiti allora cercarono rifugio nella vicina chiesa dell'Arcangelo Michele, forse sperando nella protezione dell'Onnipotente, che però non poté impedire ai normanni di dare l'edificio alle fiamme, fra le quali perirono orribilmente tutti i variaghi. Nemmeno una sortita del coraggioso Giorgio Paleologo poté ribaltare le sorti della giornata, che fu decisa quando i cavalieri normanni caricarono il centro bizantino usando il nuovo modo di caricare, con la lancia in resta per infliggere il massimo danno al nemico. Vedendo l'ago della bilancia pendere dalla parte dei normanni, gli alleati serbi e turchi di Alessio si persero d'animo e decisero di abbandonare la lotta, lasciando l'imperatore al suo destino. Alessio stesso rischiò di essere ucciso più volte e venne salvato dalla mano di Dio secondo i cronisti, dalla sua ottima armatura secondo i pragmatici.

Anche se il Guiscardo fu richiamato in Italia dalle rivolte scoppiate in sua assenza e dalle richieste di aiuto del papa, i bizantini dovettero subire altre due sconfitte ad Arta e Giannina prima di poter espellere gli invasori nel 1083 e riconquistare così a caro prezzo i Balcani. I veri vincitori furono probabilmente i veneziani, che si guadagnarono la stima dell'imperatore, oltre che una colonia commerciale a Costantinopoli e diverse esenzioni fiscali.

Art by Giuseppe Rava

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Da eroe delle SS ad assassino per il Mossad: Otto Skorzeny e l'Operazione Damocle



Negli anni Sessanta il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser stava sviluppando un programma missilistico per minacciare direttamente Israele. Non potendo fare affidamento sui sovietici o sugli americani per accedere a tale tecnologica, si era rivolto all'Europa, assoldando un buon numero di scienziati tedeschi che in passato avevano sviluppato armi per il regime nazista di Hitler. Secondo le loro fonti, gli israeliani scoprirono che nella misteriosa "fabbrica 333", gli egiziani stavano costruendo oltre 900 razzi, oltre a stare sviluppando sostanze chimiche, biologiche e le testate a combustione di gas per queste armi. Per scoraggiare gli scienziati tedeschi il Mossad era ricorso a minacce telefoniche e l'invio di alcune lettere bomba, ma con scarso successo. Non potendo permettere che una tale minaccia si concretizzasse, Israele diede via all'Operazione Damocle, un'azione su larga scala che prevedeva il ricorso a qualsiasi mezzo pur di salvaguardare la sicurezza dello stato ebraico. Anche fare un patto col diavolo.

Otto Skorzeny, il viso sfigurato dall'iconica cicatrice, era stato una delle SS preferite di Hitler, considerato "l'uomo più temuto d'Europa" che aveva liberato Mussolini dal Gran Sasso e aveva portato a termine altri audaci missioni come commando e infiltrato. Processato per crimini di guerra, era stato assolto anche grazie alla testimonianza a suo favore di un ufficiale inglese, che aveva dimostrato quanto anche il nemico lo rispettasse. Dopo la liberazione aveva visitato vari paesi, fino a stabilirsi in Spagna. Proprio in un bar altolocato di Madrid, nel 1962, lui e sua moglie furono avvicinati da una sofisticata coppia tedesca che, a loro dire, era stata rapinata e aveva perso i documenti. I quattro iniziarono a bere e chiacchierare amabilmente, fino a quando l'ex SS invitò i due a casa sua. Ma nel suo salotto, senza alcun preavviso, Skorzeny puntò una pistola contro gli ospiti.
«Ho capito chi siete, agenti del Mossad, e volete uccidermi!». In tutta calma i due rivelarono le loro identità ma affermarono che «...se avessimo voluto ucciderti saresti già morto. Vogliamo farti un'offerta».

C'era una sola cosa che l'austriaco desiderava e che il Mossad poteva dargli: l'essere cancellato dalla lista nera di Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti. Fu questo il premio che gli venne promesso se avesse aiutato i suoi antichi nemici a sabotare i piani degli egiziani. Giunto in Israele ricevette istruzioni da Isser Harel, la mente che aveva organizzato il rapimento del nazista Adolf Eichmann, e si recò in Egitto, dove acquisì molte informazioni sugli scienziati al soldo di Nasser grazie alle sue connessioni. In un caso, fu lui stesso a inviare il pacco bomba alla fabbrica di Heliopolis che uccise cinque operai egiziani che lavoravano per gli ex-nazisti. Ma il suo contributo più grande alla sicurezza di Israele non lo diede in Medio Oriente o in Africa, ma a Monaco. Nella città bavarese risiedeva Heinz Krug, ex-scienziato che aveva contribuito alla costruzione dei missili V-1 e V-2 e capo di una società di che forniva attrezzature militari all'Egitto.

Ormai era chiaro che il Mossad era sulle traccie di chi collaborava con Nasser, e il 49enne aveva già ricevuto diverse telefonate nel cuore della notte che lo minacciavano di morte nel caso in cui non avesse smesso di collaborare con gli egiziani. Temendo per la propria vita, Krug si era rivolto a un vero eroe del Reich, il tenente colonnello Otto Skorzeny, da poco entrato in contatto con lui. Quando salì in macchina con la sua nuova bodyguard, gli venne spiegato che i tre uomini nella macchina dietro di loro erano guardie del corpo fidate, mentre in realtà erano agenti del Mossad, fra i quali vi era anche il futuro premier Yitzhak Shamir. I due ex-nazisti si recarono in un bosco, dove avrebbero dovuto discutere sul da farsi, ma invece Skorzeny estrasse la pistola e freddò l'allibito Krug.

L'Operazione Damocle attirò molte critiche su Israele e dovette essere sospesa per non incrinare i rapporti con la Germania, ma funzionò: molti scienziati tedeschi lasciarono il paese e Nasser dovette rivolgersi ai sovietici per continuare la sua corsa agli armamenti. Ma nonostante il grande contributo dato, Simon Wiesenthal si rifiutò categoricamente di rimuovere dalla sua lista l'ex-SS. Alla fine il Mossad fabbricò una finta lettera del cacciatore di nazisti in cui dichiarava che Skorzeny non era più un nemico di Israele. Nonostante questo, forse il Mossad sarebbe tornato per la sua testa, se l'austriaco non fosse morto di cancro nel 1975 a Madrid, ma almeno poté trascorrere gli ultimi anni in relativa tranquillità.

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Un vecchio conto in sospeso: Marignano, 1515


Del fiero ducato di Milano era rimasta una pallida ombra.
Massimiliano Sforza veniva sfruttato come un burattino dai Cantoni Svizzeri, che dopo le tante vittorie nel corso degli anni si erano trasformati in una potenza regionale. I Francesi avevano ridotto gli stati italiani all'impotenza dopo le continue invasioni, anche l'astro di Venezia si era affievolito. Per l'Italia si stava per aprire un periodo di continue dominazioni straniere: sembrava che per primi toccasse agli svizzeri, adesso signori della Valtravaglia, Valcuvia e della Val D'Ossola (in mano ai Vallesi).

Eppure l'Italia non si sarebbe piegata né ai francesi né tantomeno agli svizzeri, ma avrebbe presto il suo posto nel sogno imperiale di Carlo V. Tuttavia in quel momento la Francia risultava essere l'unico alleato contro la Svizzera: Francesco I aveva attraversato le Alpi con 50.000 uomini e 70 cannoni, deciso a prendere il controllo del ricco Ducato. Colti di sorpresa, gli svizzeri abbandonarono i Colli del Monginevro e ripararono a Milano, dove la popolazione era stremata dal malgoverno di Massimiliano e dalle ruberie degli elvetici. A Gallarate si venne alla stipula di un accordo: i francesi offrivano concessioni agli svizzeri, ma in realtà negoziavano con il Papa alle spalle dei confederati. Dopo la firma del trattato, il Canton Berna, Friburgo, Vallese e Soletta, si ritirarono con 10 000 dei propri soldati, indebolendo le forze del Ducato di Milano.

L'esercito Svizzero agì comunque con grande coraggio.
Invece di attendere all'interno delle vecchie mura Milanesi, incapaci di reggere a un bombardamento, e soprattutto per il timore di un insurrezione dei cittadini, i confederati marciarono contro i francesi, intercettandoli nei pressi del villaggio di Zivido, sulle sponde al Lambro. L'armata francese era imponente: 2.500 gendarmi pesanti a cavallo, 1.500 cavalleggeri italiani, 10.000 fanti mercenari francesi, italiani, guasconi, baschi, 9.000 lanzichenecchi, tra cui i temibili veterani dell'armata nera. Questa forza (circa 6000) era chiamata così perché indossavano livree nere, molti simili a quelle bande nere italiane che sarebbero nate 2 anni dopo nelle guerre dD'Urbino. Questi guerrieri sarebbero stati poi tacciati come traditori, perché continueranno a combattere per la Francia contro i loro compratrioti che invece si schierarono per l'Impero.
Infine svariate migliaia di mercenari italiani: anch'essi indossavano livree nere, decisi a vendicare i tantissimi affronti ricevuti dagli svizzeri (come a Morat).
L'armata confederata era formata da 20,000 veterani, i più temuti combattenti sul campo, affiancati da circa 5000 soldati milanesi, ben poco propensi a combattere con i loro dominatori.

I Francesi non si dimostrarono all'altezza della situazione: prima che sorgesse il sole il campo francese venne assalito dagli svizzeri, i quali rubarono molti pezzi di artiglieria e ferirono lo stesso re Francesco I.
I Lanzichenecchi (come accadrà in tanti altri scontri) non ressero il confronto con i picchieri svizzeri: i loro ranghi vennero sfondati, portandosi dietro nella fuga anche i guasconi, i francesi e i baschi. Solo i mercenari italiani tennero duro.
Essi potevano sfruttare le ottime armature pesanti e la superiorità di fuoco donata dagli archibugi per rallentare l'avanzata svizzera.
Fu Gaspard I De Coligny, poi nominato Maresciallo di Francia, a rinserrare i ranghi dell'armata reale, che per un soffio non venne annientata.
Alle quattro del mattino gli svizzeri si accamparono, non essendo riusciti a rompere lo schieramento francese.
Le perdite di questi erano state tantissime (circa 6000 soldati) e la giornata successiva pareva essere in mano agli svizzeri.

Ma la mattina dopo, dalle alture vicine allo scontro, garrì il Leone di San Marco. 12.000 veneziani, al comando di Bartolomeo D'Alviano, si gettarono contro le forze degli odiati svizzeri. Circondati dalle due armate, i confederati tennero duro prima di essere massacrati senza pietà: gli italiani furono spietati, immergendo le lame nei guerrieri elvetici al ricordo dei morti di Morat. Tra gli svizzeri le perdite furono altissime, solo metà dei picchieri riuscì a tornare a casa (circa 10.000 morti).

Marignano rappresentò la fine dell'espansione svizzera: da quel giorno i confederati non si arrischiarono più in offensive extraterritoriali.
La loro influenza sul Ducato di Milano era finita e i loro balliaggi delle valli vennero restituiti ai nuovi dominatori (non prima di aver distrutto e saccheggiato il territorio, facendo scempio di tantissime opere d'arte e castelli, in particolare in Valcuvia).
Ma la guerra era ben lungi dall'essere giunta a una conclusione.
La Francia si ergeva quale nuova vincitrice, anche grazie all'alleanza con la repubblica Veneta, eppure all'orizzonte si addensavano nuvole nere.

E dietro di essere baluginava l'aquila imperiale...

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lunedì 10 settembre 2018

La furia della vecchia confederazione: Morat, 1476




20.000 mercenari circondavano Morat, roccaforte fedele ai cantoni sita sul lago omonimo. Il Duca Carlo I, furibondo per l'ignominosa sconfitta di Grandson (1476), desiderava una rivincita. Ai suoi ordini c'erano arcieri inglesi, picchieri fiamminghi, armigeri italiani (5000) e la sua abilissima cavalleria pesante, l'unica che era riuscita a mettere in difficoltà gli svizzeri nelle precedenti battaglie. Non c'era invece la sua costosa artiglieria, caduta nelle mani degli svizzeri, sebbene fosse riuscito ad acquistarne altri pezzi per rinforzare le palizzate del suo campo.
Non mancavano neppure i Savoiardi del conte Romont, in gran parte cavalleggeri, che si posizionarono a nord per intercettare i rinforzi degli svizzeri.

Il Temerario schierò le truppe per accogliere i nemici, che riteneva sarebbero giunti dalla direttiva del ruscello di Burggraben. Al centro fece costruire un'imponente opera di trinceramenti e palizzate, dove si posizionò la maggior parte della fanteria non impegnata nell'assedio. Alla destra si schierarono i gendarmi, che con le loro spade, azze e alabarde avrebbero dovuto aprirsi un varco nel porcospino svizzero. L'artiglieria era a sinistra, situata su un avvallamento scosceso che permetteva di bombardare senza ostacoli le truppe confederate. Sembrava un piano perfetto, ma il destino non arrise ai borgognoni.

Mentre in città si combatteva lungo le brecce, le forze del Temerario ricevettero più volte notizia dell'imminente arrivo dei confederati, dunque non mollarono mai i loro posti dietro le palizzate, sempre sul chi vive. All'alba del 22 giugno sembrava che la battaglia stesse per iniziare, le voci dell'arrivo dei ribelli si rincorrevano per il campo. Ma i militi del Duca rimasero per ore sotto la pioggia senza vedere alcun avversario, tanto che Carlo fece smontare i cavalieri e distribuì il pasto di mezzogiorno. Era pure giorno di paga per i mercenari. Rimasero alla palizzata solo 3000 uomini, stretti nei mantelli e sferzati dalla pioggia
Fu in quel momento che gli svizzeri calarono sul nemico.

L'avanguardia, 6000 fanti e 1200 cavalieri, emerse dalla foresta di Birchenwald, nel punto esatto predetta dal duca. Insieme a loro marciava il blocco principale dell'esercito confederato: 10.000 picchieri disposti a cuneo, protetti ai fianchi da alabardieri da un ulteriore anello di picchieri in armatura pesante. Una retroguardia di 6000 miliziani chiudeva la colonna svizzera, che non mancava di archibugieri e schioppettieri. Gli svizzeri caricarono a testa bassa la palizzata, i cui difensori combatterono come diavoli per dare tempo ai compagni di organizzarsi.
L'artiglieria riuscì a sparare poche salve, ma inflisse un grave scotto ai confederati, stretti in quella falange. Non appena un gruppo di picchieri trovò un sentiero sinistro senza protezione, la palizzata venne travolta del tutto. I difensori vennero trucidati e l'armata svizzera calò sul campo, avvinto dalla confusione. Carlo galoppò in mezzo ai suoi uomini nel tentativo di riunirli, ma gli attacchi dei mercenari si infrangevano contro l'inesorabile muro di picche. Sebbene i cavalieri pesanti riuscirono a mettere in rotta i soldati di Lorena, la battaglia era ormai perduta.

Carlo Il Temerario dovette dare con cuore grave l'ordine di ritirata, che si trasformò in una rotta. Gli svizzeri erano furibondi per l'affronto di Grandson, dove 400 connazionali erano stati impiccati senza pietà, dunque sfogarono la propria rabbia contro i mercenari in fuga.
Morirono quasi 10.000 uomini, non vennero risparmiati neppure i seguiti di donne e civili che erano soliti seguire gli eserciti dell'epoca. Mentre i Savoiardi riuscirono a fuggire insieme ai cavalieri grazie ai loro destrieri e alla posizione defilata, per gli italiani fu un eccidio.
Essi avevano combattuto sulle sponde del lago sia contro i confederati che contro i difensori della città riunitisi in una sortita. Tennero duro per l'intera giornata, infliggendo grandi perdite ai nemici, ma alla fine dovettero cedere. Non ci fu pietà per quei mercenari, stretti tra lago e picche nemiche, che vennero praticamente sterminati.
Fu un evento terribile per il mercenariato italiano, tale da rimanere nelle coscienze dei peninsulari fino alla battaglia di Marignano (1513), dove le armate "nere" italiane riservarono lo stesso trattamento ai mercenari confederati.

Il duca Carlo era invece riuscito a sopravvivere ancora una volta alla disfatta, ma la sua reputazione era in pezzi. Il suo istinto guerriero non si era ancora placato e, in un ultimo tentativo di riconquistare il suo onore, sarebbe morto in battaglia.


Regogolo Boemetto

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